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Cinecittà tra le dune

Cinecittà tra le dune

Sono giorni ormai che viaggio da solo. Nonostante il cappello per proteggermi dal sole, è inverno anche qui in Marocco e sul Jebl Toubkal le cime sono imbiancate. Per oltrepassare i monti dell’Atlante ho dovuto aggirarli. Da Marrakesh sono andato fino ad Agadir; poi, rientrando verso est, ho raggiunto le valli dei fiumi Draa e Dadès. La mia destinazione è Ouarzazate, la “porta del deserto”, la città principale della zona. Fu costruita dai francesi negli anni ’20 del secolo scorso ed è famosa per essere la Hollywood marocchina. In passato era una tappa obbligata nel precorso per Timbuctu, sulla via carovaniera delle “Mille e una Casbah”. Un luogo sospeso tra neve e dune, dove le popolazioni locali si incontravano per discutere di affari.

«Vendere è la vita quotidiana, noi nasciamo mercanti» spiega Raduan, un ragazzo che lavora nel bazar del padre. Con le sue parole sembra volersi giustificare perché, per convincermi a visitare il negozio, è venuto a prendermi fin sul marciapiede opposto. Mentre aspettiamo che bolla l’acqua per il tè, mi mostra oggetti di antiquariato. Ora sono io imbarazzato: so che, dopo l’ultima fregatura, non comprerò più nessun souvenir. «È quasi mezzo chilo, mi è costata 5 euro» gli dico in inglese mostrando la busta di erba medicinale berbera comprata in erboristeria. Tra i vicoli della mellah, l’antico ghetto ebraico, un mercante me ne aveva venduti, invece, 30g per 2 euro. Raduan mi guarda scandalizzato ed esclama «Madre Africa, padre Europa! Ormai lo stiamo dimenticando!».

Per i Berberi di Ouarzazate l’Occidente è stato sempre un genitore amorevole che si è preso cura della città, riempiendo le tasche e alimentando l’economia. Gli scenari esotici, le oasi, i villaggi in terra cruda e la possibilità di reperire tra i residenti manodopera e figuranti a basso costo hanno attirato l’industria del Cinema. Così questa regione negli anni è diventata la perfetta controfigura del Medio Oriente e del Tibet, di Roma e dell’Egitto e quasi tutti film ambientati nel deserto vi hanno trovato dei set naturali. Molti la chiamano Oullywood. I film che ne hanno consacrato la fama sono Il Gioiello del Nilo di Lewis Teague e Kundun di Martin Scorserse. Ma anche L’uomo che sapeva troppo di Hitchcock e Il Tè nel deserto di Bertolucci, sono stati girati a Ourzazate. La fortezza, Casbah di Taourirt, è comparsa in un episodio della saga Guerre Stellari ed è stata il set per Le colline hanno gli occhi. Nella vicina Aït Benhaddou, un villaggio di fango perfettamente conservato e dichiarato patrimonio mondiale dall’UNESCO, sono stati, invece, girati film come Lawrence d’Arabia di David Lean, Gesù di Nazaret di Franco Zeffirelli e Il Gladiatore di Ridley Scott. Questi sono solo alcune opere girate nella zona. Chiacchierando con gli abitanti, l’elenco si allunga: Alì Babà e i 40 ladroni, Prince of Persia, Le Crociate, Hidalgo, La Mummia, Babel e tanti altri. Quasi tutti hanno avuto una piccola parte come comparsa, alcuni hanno anche recitato in piccoli ruoli. Entrando nelle case e nei negozi, si possono osservare le loro foto sui set e gli autografi delle grandi star. Il cinema italiano è molto amato. Oltre agli studi americani della Atlas Corporation ci sono quelli della Cla Studios, fondati nel 2004 da Dino De Laurentis in collaborazione con Cinecittà. Al suo interno ci sono set che riproducono le ambientazioni di Gerusalemme, della Mecca e della tipica Casbah del deserto. Tra legno e cartongesso, si percepisce la mancanza di un’anima vitale. Tutto è in ordine, tutto è perfetto, tutto è immobile. Pronto per essere visitato dai turisti più che vissuto dagli attori. Una sensazione simile a quella che si avverte nel Museo del Cinema, dove sono esposti gli allestimenti di film e fiction legati a temi biblici (Giuseppe del 1993, Salomone e Sheba del 1995, Joseph e Giuseppe e Maria del 1999, L’infante di Betlemme del 2002). Tra scenografie, manichini, vecchie telecamere e abiti di scena lavorano poche persone e l’entusiasmo è minimo. «Ora siamo rimasti veramente pochi a vivere di cinema» Spiega Mohammed, mentre mi accompagna. «Adesso sfruttiamo solo il turismo attratto dalla fama della nostra città». Anche la Casbah di Taourirt è un ambiente immobile. Un labirinto di pareti bianche che racchiudono stanze vuote. All’esterno Rashid, un arabo che ha imparato a salutare in Inglese, Italiano e Spagnolo, attende il passaggio dei visitatori. Offre di accompagnarli tra i vicoli del centro storico, di far visitare la sua abitazione e quella dei suoi amici, di mostrare il quartiere giudaico e di vendere merci preziose. «Voi Europei venite qui per il cinema, usate le nostre città, il nostro territorio, ci sfruttate e ci pagate poco. Noi Berberi ci guadagniamo solo in turismo e dobbiamo essere furbi. Dobbiamo approfittare di chi può spendere».

Si accendono i lampioni e il sole è quasi tramontato, gli studi cinematografici e il museo hanno chiuso, le persone rincasano e a me manca solo da fare qualche fotografia notturna. Compro qualche sigaretta sfusa e decido di tornare da Raduan. Sono sicuro che apprezzerà il regalo e un buon tè alla menta mi tirerà su. «Molti pensano di doversi rifare sui turisti occidentali e che la loro pazienza sia illimitata» dice mentre mi fa indossare dei turbanti beduini. «Io credo che dobbiamo essere riconoscenti. A Ouarzazate non avevamo nulla, ora tutti si fermano qui qualche giorno prima di andare sulle dune».  ©MarioFracasso